Il diabete mellito

Il termine diabete mellito deriva in parte dal greco (diabaìno = passare attraverso) e in parte dal latino (mellitus = dolce): chiaro riferimento al fenomeno, già  conosciuto nell’antichità, del passaggio di sostanze dolci (glucosio) nelle urine.
Arateo di Cappadocia (ca. 120-200 d.C) ne ha dato una descrizione valida  ancora oggi “Il diabete è una malattia importante (…) ha carattere cronico e si sviluppa lentamente (…) la sete è implacabile e le copiose bevute sono più che uguagliate dalle profuse minzioni (…) l’urina scorre via ed è impossibile porre un limite al bere e all’urinare (…) se egli si ferma anche per pochissimo e smette di bere, la bocca diventa riarsa e il corpo secco”.
Ovviamente si riferiva a un diabete completamente scompensato, quale adesso non si vede quasi più.
I dottori Banting e Best hanno scoperto l’insulina soltanto nel 1921.
Sotto il termine di diabete mellito sono raggruppati quadri clinici molto diversi fra loro dal punto di vista eziologico, fisiopatologico, prognostico e terapeutico, accomunati soltanto dall’aumento della glicemia, cioè da un alto livello di glucosio nel sangue.

La causa di un diabete può essere duplice:

  • o un difetto (parziale o totale) di produzione di insulina da parte delle cellule “insule di Langherans” del pancreas (da cui il nome)
  • o una ridotta attività biologica dell’insulina sui tessuti periferici, condizione definita insulino-resistenza.

Il principale effetto biologico  dell’insulina è quello di favorire l’ingresso di glucosio nelle cellule, affinchè  possa da queste essere utilizzato come materiale energetico.
Il glucosio è una  piccola molecola idrofila che può circolare liberamente nel sangue, ma non può attraversare la membrana delle cellule, che è idrofoba, essendo costituita da lipidi.
Per entrare nelle cellule di alcuni tessuti insulino-sensibili, in particolare del tessuto muscolare e del tessuto epatico, il glucosio ha bisogno che siano presenti sulla superficie cellulare alcune formazioni specifiche, denominate  Glut (abbreviazione di Glucose transporter = trasportatori di glucosio) che costituiscono dei veri e propri canali che consentono una rapida e massiva entrata di glucosio nelle cellule.
I trasportatori di glucosio si trovano in condizioni di riposo o di digiuno all’interno delle cellule. L’azione dell’insulina è proprio quella di attivare, una volta che quest’ormone si sia legato al suo recettore, la traslocazione dei trasportatori di glucosio da un compartimento intracellulare alla superficie cellulare, affinchè possano esplicare la loro azione.
Anche la contrazione muscolare esercita un effetto analogo facendo emergere i trasportatori di glucosio sulla superficie cellulare.
Questo è uno dei motivi per cui l’esercizio fisico è  considerato una componente essenziale del trattamento del diabete mellito.

 Oltre la succitata funzione favorente l’ingresso del glucosio nelle cellule, l’insulina ne esplica numerose altre :

  • promuove l’accumulo di glucosio sotto forma di glicogeno (glicogenosintesi,) nel fegato e nei muscoli;
  • inibisce il processo  inverso, cioè la degradazione del glicogeno in glucosio (glicogenolisi);
  • inibisce la sintesi di glucosio a partire dalle proteine (gluconeogenesi);
  • promuove la formazione di trigliceridi a partire da carboidrati in eccesso, una volta che siano state ristabilite le scorte di glicogeno nel fegato;
  • inibisce l’enzima lipasi ormonosensibile, inibendo il consumo dei grassi come sostanze energetica ;
  • favorisce, in presenza dell’ormone somatotropo, la sintesi delle proteine partendo dagli aminoacidi;
  • stimola la proliferazione cellulare;
  • stimola la produzione endogena del colesterolo.

Tutti i succitati processi metabolici sono deputati all’accumulo energetico, attestando il  ruolo dell’insulina come il principale ormone anabolizzante, senza il quale la vita e la crescita non sarebbero possibili.
Ruolo svolto promuovendo l’uso del glucosio come sostanza energetica di primo impiego, piuttosto che quello di proteine e di grassi, abbassando di conseguenza  il suo livello nel sangue.
Si comprende da tutte questa funzioni il perché una carenza di insulina, quantitativa o funzionale,  determini  uno scarso utilizzo del glucosio da parte delle cellule, un suo aumento in circolo, in definitiva un diabete.

Classificazione della glicemia nel sangue

  • E’ ritenuta normale la glicemia fino al valore di 100 mg/dl;
  • valori compresi fra 100 e 125 definiscono la condizione di alterata glicemia a digiuno IFG (Impaired Fasting Glucose);
  • valori di glicemia uguali o superiori a 126 mg/dl sono sufficienti a porre la diagnosi di diabete; diagnosi considerata certa anche se si ha un valore uguale o superiore a 200 mg/dl in qualsiasi momento della giornata o due ore dopo un carico di glucosio;
  • valori di glicemia compresi fra 140 e 200 mg/dl dopo un carico di glucosio definiscono invece la ridotta tolleranza al glucosio o IGT  (Impaired Glucose Tolerance).

Le condizioni di IFG e IGT non rappresentano situazione di malattia, ma fattori di rischio di evolvere nel tempo verso un diabete tipo 2 conclamato e malattie cardiovascolare.
Nel corso degli ultimi anni i due principali tipi di diabete mellito hanno avuto nomi diversi, basati su concetti molto approssimativi, quali l’età di insorgenza più frequente (giovanile e senile) e la necessità o meno del trattamento con l’insulina (insulino- dipendente e non insulino- dipendente).
Essendovi frequentemente quadri, per esempio, di diabete senile a insorgenza giovanile, o di diabete inizialmente non insulino-dipendente che in seguito necessitano di terapia insulinica, per migliorare la chiarezza espositiva nel 1999 l’Oms ha definito i due tipi di diabete semplicemente come tipo 1 e tipo 2.    

IL DIABETE MELLITO TIPO 2

E’ la forma di diabete di gran lunga più frequente, rappresentando circa il 92% di tutti i casi. Era definito, secondo la vecchia denominazione,  diabete mellito non insulino-dipendente o NIDDM (Non Insulin Depependent Diabetes), in considerazione del fatto che, almeno all’inizio,  non necessita di terapia insulinica.
Alla base di questa forma di diabete esiste una predisposizione genetica, come dimostra l’elevata incidenza fra parenti di primo grado e la quasi assoluta concordanza fra i gemelli monovulari. Predisposizione che viene, tuttavia, notevolmente amplificata da un stile di vita non corretto, in particolare dall’abbondanza di cibo che porta al sovrappeso e dalla mancanza di attività fisica
E’ infatti una delle patologie più strettamente correlata al cosiddetto “benessere”, in quanto, pur in presenza una predisposizione genetica, potrebbe rimanere sempre allo stato latente, cioè mai manifestarsi clinicamente, oppure manifestarsi più tardivamente e in modo molto più lieve, senza il concorso di fattori ambientali esterni.
L’obesità addominale, infatti, precede la comparsa del diabete in circa l’80% dei casi  e la vita sedentaria ne aumenta l’incidenza di 2-4 volte. Altri fattori promotori della comparsa del diabete  sono lo stress, il fumo, l’abuso di alcol.
Il perdurare dell’esposizione di un individuo ai fattori di rischio ambientali spiega perché questa forma di diabete tende a comparire in età adulta, generalmente dopo i 40 anni.

Il diabete tipo 2 è ormai un’emergenza planetaria, insidiando la vita e la salute di oltre 245 milioni di persone in tutto il mondo. Si prevede che, continuando l’attuale tendenza, il panorama mondiale di tale forma morbosa sia destinato a dilatarsi a dismisura, passando fra meno di 20 anni a 380 milioni. A contribuire maggiormente all’espansione di tale patologia saranno i Paesi in via di sviluppo, i quali,  dopo l’Aids, la malaria e la Tbc,  conosceranno un’altra epidemia,  questa volta non infettiva, ma altrettanto pericolosa: il “pigro” pancreas di popolazioni cronicamente iponutrite, difficilmente potrà reggere all’impatto con l’adozione delle  peggiori abitudini alimentari occidentali.
Si stima che in Italia i diabetici di tipo 2 siano attualmente circa 3 milioni (il 4,1% della popolazione), ma si calcola che altrettanto siano coloro che non sanno di esserlo. La previsione è che nel 2025, per il propagarsi di errati stili di vita e il prolungamento della vita media, i diabetici italiani saranno intorno ai 5 milioni.
Quel che è peggio, si sta assistendo alla rapida diffusione di tale patologia anche fra le fasce più giovani della popolazione, quale conseguenza della micidiale combinazione di una vita sempre più sedentaria, davanti a tv e computer, e di un’alimentazione sempre più scorretta.

L’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) è impegnata in un’opera di capillare sensibilizzazione affinché il concetto della prevenzione del diabete mellito e delle sue complicanze, divenga consapevole e permanente patrimonio culturale delle popolazioni di tutti i Paesi aderenti.  

 Il Diabetes Prevention Study ha dimostrato che uno stile di vita attivo associato a un’alimentazione corretta può determinare una riduzione del 70% dei casi di diabete in una popolazione predisposta.
E’ quindi importante identificare  i soggetti a rischio, al fine di adottare il più precocemente possibile i provvedimenti di prevenzione. Sarebbe possibile predire con largo anticipo (anche 10-15 anni) la propensione verso questa patologia, sondando il terreno costituzionale con una prova da carico di glucosio, atta a evidenziare un’eventuale “vena” sotterranea.  
Qualora questa venga evidenziata, la strategia vincente è  quella di agire con molta risolutezza sullo stile di vita, in particolare ottimizzare il regime alimentare e praticare una regolare attività fisica, e combattere tutti gli eventuali concomitanti fattori di rischio: quindi non accontentarsi di ridurre il fumo, ma abolirlo, allontanandosi anche da quello passivo; non solo diminuire il colesterolo, ma portarlo a valori decisamente bassi; non solo abbassare la pressione entro i limiti “border line” ma tendere ai  120/70 mmHg; non perdere solo qualche chilo di peso, ma riportare il proprio IMC e la propria circonferenza addominale entro i valori normali , e così via.
Si stima che la diagnosi clinica di diabete sia mediamente preceduta da una lunga fase asintomatica durante i quali l’iperglicemia esercita già gli effetti deleteri a livello dei tessuti bersaglio.      
L’American Diabetes Association (ADA) consiglia di sottoporre a glicemia a digiuno e dopo carico di glucosio tutti i soggetti con età superiore ai 45 anni, gli obesi, i parenti di primo grado di diabetici, gli appartenenti a etnie ad alto rischio di malattia, le donne che abbiano partorito figli macrosomici (di peso uguale o superiore ai 4 Kg) o che abbiano avuto diabete gestazionale, i dislipidemici e gli ipertesi.

IL DIABETE MELLITO TIPO 1       

La seconda forma di diabete come diffusione, a grandissima distanza dalla prima,  è il diabete mellito tipo 1, precedentemente denominato anche insulino-dipendente o IDDM (Insulin Dependent Diabetes Mellitus ), a significare l’assoluta necessità di essere trattato con insulina.
E’ considerata attualmente una malattia autoimmune, caratterizzata dalla presenza in circolo di auto-anticorpi che determinano la progressiva distruzione delle beta-cellule pancreatiche (fino a più del 90%), a cui consegue un progressivo deficit insulinico.
Il processo autoimmune probabilmente insorge in risposta ad insulti ambientali (batteri, virus, sostanze tossiche), in presenza di una predisposizione a una  iperattività del sistema immunitario. Esiste anche una forma di diabete tipo 1 senza alcuna evidenza di autoimmunità e perciò  definito idiopatico,  cioè “da causa ignota”.
La forma auto-immune si presenta più frequentemente nei bambini e nei giovani (spesso dopo una malattia infettiva stagionale), ma può esordire in qualsiasi età, anche nell’ottava o nona decade. A volte  si associa ad altri disordini autoimmuni, quali il morbo di Basedow, la tiroidite di Hashimoto, la malattia di Addison, la vitiligine, l’anemia perniciosa.
Anche in questa forma di diabete vi è una fase silenziosa che precede la malattie vera e propria, senza sintomi clinici, ma segnata già dalla micidiale presenza nel siero degli autoanticorpi. E’ stato suggerito di dosare alcuni auto-anticorpi nella fascia d’età sotto i 5 anni.
Data l’insicurezza dei fattori inducenti e scatenanti il diabete tipo 1, una strategia preventiva trova poco spazio. Attualmente l’unica terapia possibile del diabete tipo1  consiste nel dare all’organismo quello che non può più produrre, cioè l’insulina: somministrando la quantità adeguata di tale ormone, lo zucchero può nuovamente entrare nelle cellule ed essere da queste utilizzato per le innumerevoli reazioni metaboliche che la vita richiede. 
E’ interessante  un’ interpretazione evoluzionistica avanzata per spiegare la genesi di questi due tipi di diabete: il tipo 1 sarebbe più frequente in quelle popolazioni che ai loro albori, essendo nomadi, dovevano avere un sistema immunitario molto vivace, mentre il tipo 2 colpirebbe maggiormente soggetti i cui avi hanno dovuto superare lunghe carestie, per cui hanno selezionato “geni risparmiosi”, con una tendenza metabolica all’iperinsulinemia per assicurarsi scorte di grasso.

IL DIABETE MELLITO GESTAZIONALE

Nel 4% circa di tutte le gravidanze insorge una forma di diabete, denominato diabete gestazionale. Si definisce con questo termine un’intolleranza glucidica che si manifesta per la prima volta durante la gestazione e che tende a scomparire dopo il parto. Gli ormoni preposti in gravidanza allo sviluppo fetale (progesterone, estrogeni, ormone lattogeno placentare HPL, gonodatropina corionica umana HCG) mobilizzano le risorse nutrizionali della madre, in primo luogo il glucosio, rendendole disponibili per il feto: ne consegue già una fisiologica tendenza a un incremento dei valori glicemici materni.  Determinante sembra essere soprattutto il ruolo svolto dall’ormone lattogeno placentare HPL, ad azione lipolitica e anti insulinica, le cui concentrazioni aumentano molto durante le ultime 20 settimane di gestazione.
Sono considerate a basso rischio di contrarre un diabete gestazionale le donne:

  • di età inferiore ai 25 anni;
  • di peso pre-gravidico normale;
  • familiarità negativa per diabete mellito,
  • anamnesi negativa per alterazioni del metabolismo glucidico;
  • anamnesi ostetrica priva di esiti sfavorevoli;
  • gruppo etnico a bassa prevalenza di diabete gestazionale.

 

Sono considerate ad alto rischio di contrarre un diabete gestazionale le donne:

  • obese (BMI superiore a 30);
  • di età superiore ai 35 anni;
  • con familiarità per diabete mellito di entrambi i tipi in parenti di primo grado;
  • con parto di neonati macrosomici (peso alla nascita superiore ai 4 kg in precedenti gravidanze);
  • pregresso riscontro di alterata tolleranza glucidica;
  • glicosuria marcata nella gravidanza in corso.

 Sono considerate a medio rischio le donne con caratteristiche tra il basso e l’alto rischio.
In queste ultime occorre eseguire un testo da carico orale di glucosio tra la 24a e la 28° settimana di gravidanza, mentre nelle donne ad alto rischio il test da carico di glucosio deve essere effettuato il più precocemente possibile. Il test va ripetuto sei settimane dopo il parto.
Si tratta di una condizione clinica meno allarmante e  pericolosa del diabete pre-concezionale, insorgendo di solito nella seconda metà della gestazione, quando gli organi fetali si sono già formati. Tuttavia un diabete gestazionale non diagnosticato e, quindi, non trattato, può comportare rischi sia per la madre (complicazioni ipertensive, necessità di ricorrere al parto cesareo), sia per il feto e il neonato (microsomia, ittero, ipocalcemia, policitemia, ipoglicemia).  
Le donne con almeno un fattore di rischio per diabete gestazionale devono eseguire  un test da carico di glucosio ( 75 g di glucosio) alla 16-18ma settimana, da ripetere alla 24-28ma settimana, se negativo.                    

UNA SPADA DI  DAMOCLE SUL DIABETICO:  dalle alterazioni metaboliche ai danni d’organo  

Gli alti livelli di glicemia ( attestati dalla percentuale di emoglobina glicata, che esprime il valore medio della glicemia degli ultimi 2-3 mesi), specialmente se associati   ad altri fattori di rischio ( in particolare fumo, ipercolesterolemia e ipertensione arteriosa)  determinano alterazioni strutturali a carico di arterie sia di medio e grosso calibro, configurando una macroangiopatia,  sia di piccolo calibro, configurando una microangiopatia,  che si riflettono sugli organi i che tali  arterie irrorano.

La macroangiopatia interessa in particolare :

  • il cuore: le complicanze cardiovascolari rappresentano la prima causa di morte e la voce più costosa in termini di ricoveri ospedalieri per la popolazione diabetica; la mortalità per eventi cardiovascolari risulta aumentata rispetto alla popolazione generale del 67% per l’uomo e del 92% per la donna. Il diabete aumenta l’incidenza e accelera il decorso dell’aterosclerosi e si ritiene che il soggetto diabetico debba essere considerato con un rischio coronarico pressochè equivalente a quello di un soggetto che ha già subito un infarto del miocardio,  con un rischio maggiore per la donna rispetto all’uomo. Va sempre più affermandosi il concetto che il diabete tipo 2 dovrebbe essere considerato più una patologia di interessa cardiologico che verosimilmente a causa della concomitante neuropatia che riduce, fino ad annullarlo, il dolore anginoso. Il rischio coronario è collegato più con la durata che con la severità del diabete e allo sviluppo di tali complicanze concorrono in modo particolare la contemporanea presenza di alterazioni lipidiche e di ipertensione arteriosa.  
  • il cervello, determinando una maggiore propensione verso attacchi ischemici transitori (TIA), ictus, diminuzione delle facoltà cognitive;  
  • gli arti inferiori, potendo determinare claudicatio intermittens (dolori alla deambulazione che cessano nel momento in cui ci si ferma), ulcere, cancrene,  fino a richiedere l’amputazione degli arti; il piede diabetico, definito dalla presenza di ulcerazioni e da distruzione dei tessuti profondi, si associa ad anomalie neurologiche e a vari gradi di vascolopatia periferica e rappresenta la prima causa  non traumatica di amputazione degli arti inferiori.

La microangiopatia interessa in particolare:

  • il rene: potendo portare progressivamente il rene a perdere la sua normale funzione di filtro delle scorie; l’insufficienza renale secondaria alla nefropatia diabetica è la malattia renale che sta registrando la più forte crescita negli ultimi anni in tutto il mondo ed è oggi la più importante causa di uremia terminale con necessità di dialisi e di trapianto;
  • l’occhio : la retinopatia diabetica è una complicanza altamente specifica del diabete mellito tipo 1 e tipo 2. E’ strettamente correlata alla durata del diabete e, complessivamente, rappresenta la principale causa di nuovi casi di cecità tra gli adulti di età compresa tra i 20 e i 74 anni. Frequenti anche l’insorgenza di cataratta, glaucoma e cherato-congiuntivite;
  • il sistema nervoso, a carico delle tre le sue sezioni, con sintomi che sono quanto mai vari, a seconda del settore maggiormente interessato: se è il sistema nervoso centrale, i processi degenerativi a carico dei neuroni e dei fasci nervosi possono determinare un deficit delle varie funzioni (cognitive, sensitive, motorie, di memoria, di comportamento, visive e acustiche); se è il sistema nervoso periferico, possono aversi alterazioni della sensibilità, che generalmente iniziano alle estremità inferiori (formicolio, bruciore, dolore), e alterazioni motorie (debolezza muscolare, diminuzione delle masse muscolari);  se è il sistema nervoso vegetativo o autonomo, possono aversi sintomi vaghi che interessano praticamente tutti i sistemi (urogenitale, gastrointestinale, termoregolatorio, cardiovascolare) e tutte le funzioni (compresa quella sessuale).  La disfunzione erettile nei diabetici ha una incidenza tre volte superiore ai non diabetici ed è correlata alla presenza di una neuropatia periferica e/o di una vascolopatia, oltre che all’età, al fumo, alla durata della malattia e alla presenza di altre complicanze croniche.

Nei pazienti diabetici, in particolare in quelli tipo 2, coesistono spesso altre alterazioni metaboliche, che contribuiscono ad aggravare il quadro clinico:

  • ipertensione arteriosa, il maggior fattore di rischio aggiuntivo di aggravamento delle lesioni micro- e macro-vascolari, tanto che proprio dalla correzione di questa patologia  dipendono gran parte delle  possibilità di prevenire o  rallentare la progressione delle complicanze, in particolare la nefropatia, motivo per cui è necessario essere particolarmente aggressivi nel trattamento dell’ipertensione nei diabetici;
  • dislipidemia: tipicamente rappresentata da alti livelli di trigliceridi e di lipoproteine LDL  e da bassi livelli di HDL;   
  • alterazioni dell’assetto coagulativo, esprimente un quadro pro-coagulativo;
  • iper-produzione di radicali liberi, che contribuisce al processo dì di glico-ssidazione;
  • disfunzione endoteliale: nelle donne il diabete sembra annullare gli effetti positivi dovuti agli estrogeni, probabilmente a causa della ridotta produzione di ossido nitrico da parte dell’endotelio mediata dall’estradiolo.

 La gestione intensiva del diabete, con l’obiettivo di raggiungere valori glicemici quanto più vicini alla normalità, è in grado di ritardare l’insorgenza di i danni suesposti e di preservare il più a lungo possibile la funzione delle cellule beta dal pancreas. E’ necessario quindi intervenire quanto più precocemente possibile nella storia naturale della malattia  e  utilizzare una strategia terapeutica ispirata alla neutralizzazione, altre che dell’iperglicemia, di tutti i fattori di rischio associati che, insieme a questa svolgono un ruolo determinante nella genesi delle complicanze cardiovascolari del diabete mellito tipo 2.
Per quanto riguarda il diabete tipo 1, l’unico trattamento finora disponibile è la terapia sostitutiva con insulina, che rimpiazza l’ormone endogeno mancante. 

 

 

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